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COVID19: EFFETTI COLLATERALI. LA RETORICA SUL VIRUS CONTAGIA ANCHE LA PUBBLICITÀ.


Che il  Covid avesse un alto coefficiente di diffusione lo si sapeva, ma che avrebbe contagiato in modo così significativo anche la pubblicità forse non se lo aspettavano nemmeno i pubblicitari.

In una primissima fase di annuncio delle misure di emergenza, gli spot dei grandi marchi che avevano già pianificato le uscite sono andati inevitabilmente in onda: con uno strano effetto  di schizofrenia tra la drammaticità delle notizietrasmesse dal mondo dell’informazione e l’edonismo surreale di alcuni commercial televisivi, evidentemente ideati come minimo 2 o 3 mesi prima di marzo quando il Covid 19 non si sapeva nemmeno cosa fosse.

Poi, improvvisamente, abbiamo visto un repentino adeguamento degli spot al tema del momento: prima il semplice inserimento in chiusura di un cartello con quello che sarebbe diventato il tormentone della fase 1,  l’ashtag “andrà tutto bene”. Poi gradualmente il comparire sullo schermo di spot dallo spirito nuovo, creati ad hoc sulle tematiche Covid19.

In un clima generalizzato di incertezza e di paura, perloppiù fomentato dal bombardamento di dati e di misure emergenziali, la pubblicità ha virato decisamente su quella che in termine tecnico si definisce ”comunicazione emozionale e valoriale”, che esprime  cioè i valori etici e la filosofia di quell’azienda o di quel brand.  Ma in realtà, anziché  le diverse identità e i differenti stili di vita e di pensiero proposti dal  brand ai loro diversi target, si è verificato invece un appiattimento generale su quello che è stato ed è il pensiero unico nell’emergenza, rappresentato anche in questo caso da un ashtag promosso prima di tutto da governo e istituzioni: #iorestoacasa.

E’ stato interessante monitorare come gradualmente da Vodafone  a Bmw, da CocaCola a Star, da Poltrone Sofà a Conad, da Ikea a  Bauli e così via, tutti i big brand si siano allineati sullo lo stesso mood comunicativo, sia pure in alcuni casi con spot di alta qualità produttiva (per lo spot ad esempio la regia è stata affidata niente meno che il regista Francis Ford Coppola)

Il risultato è stato che dopo le prime uscite, questo messaggio un po’ buonista del “vogliamoci bene” è risultato , non solo ai miei occhi, ripetitivo, stucchevole e incapace di rispecchiare la identità distintiva dei singoli prodotti o brand.

Focalizzando l’attenzione sul panorama italiano e sulla fruizione televisiva, risultano interessanti a tal proposito i dati di una prima ricerca realizzata da Conic e Hokuto, “La pubblicità vista dalla quarantena“, con interviste svolte dal 23 al 25 marzo 2020 e somministrate a un campione di 800 spettatori televisivi under 18, con quote campione per sesso, fasce di età e area geografica.

In un commento di Alberto De Martini, amministratore delegato di Conic, riportato dall’ANSA, si legge che «la pubblicità contaminata dal virus risulta indigesta per il 60% degli italiani, in particolare dagli under 35, che infatti sottoscrivono in massa l’affermazione “c’è troppa pubblicità a sfondo coronavirus”. Per il 50% del campione complessivo, inoltre, “la pubblicità ha esagerato ad adeguare i contenuti alla emergenza sanitaria”»

Quando ho deciso a 20 anni, e contro ogni saggio consiglio, che avrei voluto assolutamente fare la copywriter, cioè ideare messaggi (slogan si diceva allora) per la pubblicità, la comunicazione commerciale rappresentava la massima espressione di creatività e arguzia intellettuale.

L’arte concettuale che è stata la vera rivoluzione dell’arte del secondo Novecento, trovava allora la sua più alta rappresentazione in quelle campagne che hanno fatto la storia della pubblicità italiana. Ricorderete la campagna  Jesus. Chi mi ama mi segua, del mitico Emanuele Pirella, uno dei miei primi maestri insieme al grande Armando Testa creatore di testimonial tra il pop e il surrealismo come Pippo e la saga della verdura umanizzata che ancora oggi contraddistingue i supermercati Esseliunga. E ancora  la campagna stampa Camel in cui nella pagina di sinistra si mostrava una sigaretta uguale identica a quella fotografata nella pagina di destra, mentre l’headline, ovvero il titolo recitava Camel. La sigaretta di sinistra : campagna firmata da colui che reputo uno dei più grandi artisti concettuali travestito da pubblicitario, cioè Lele Panzeri.

Allora la pubblicità era un laboratorio di sperimentazione linguistica e visiva, con la giusta funzione di stupire e quindi di farsi memorizzare per quella scintilla  d’intelligenza ironica che conteneva: rompeva gli schemi con una battuta di spirito che faceva sentire intelligente il consumatore che ne recepiva il doppio senso e catturandone le simpatie.

In 50 anni la comunicazione ovviamente è molto cambiata, oggi tendenzialmente si esprime più attraverso le immagini che attraverso le parole e attraverso tutto il mondo digital che ha regole legate ad algoritmi e a criteri molto più tecnologici.

Pur essendo ormai abituati ovviamente alla pubblicità contemporanea, credo quasi tutti ci siamo accorti che qualcosa si è inceppato nel meccanismo della comunicazione postcoronavirus che ha reso la pubblicità “tutta uguale” e un po’ noiosa.

Niente di strano; questo avviene esattamente quando la pubblicità invece di assolvere alla sua naturale funzione di provocare o di stupire, e di essere in qualche modo avanguardia linguistica,  si adegua ai contenuti e alle strategie dominanti: è così che da “pubblicità “ diventa propaganda.

Quando le aziende mie clienti mi chiedono cosa fare e come comunicare in questa fase, io rispondo che comunicare con il proprio target ora più che mai è fondamentale , ma comunicare banalità è controproducente, perché si va ad annullare questa storia di differenziazione dell’identità di brand, che ci vogliono anni a costruire e bastano 2 mesi ad azzerare.

Basta con gli spot incentrati su quell’”andrà tutto bene” che sa più di disperazione che di motivazione al futuro, basta con lo stereotipo dello stare in casa come piacere anziché come scelta forzata. Da pubblicitaria so di apparire controcorrente, ma la comunicazione efficace, quella che si fa ricordare,  è da sempre il risultato di una tempesta di cervelli (il famoso brain storming) , e di uno sperimentalismo che, se non altro nel linguaggio, risulta sempre un passo avanti. Quando la pubblicità invece fa un passo indietro e si limita a diventare pura cassa di risonanza del pensiero dominante o circolante, immediatamente perde di mordente e diventa noiosa. In una parola: retorica.